Il Viceré del Bastione – Il secondo mandato (1726-1727)
Di fronte a tali domande lo corte torinese decise di prendere tempo e nel febbraio la segreteria di Stato comunicò al Saint Remy che il re aveva rinviato a “un’altra volta la risposta alle suppliche dello Stamento militare”[253]. Quando però le istanze vennero rinnovate personalmente dal marchese di Laconi, grande di Spagna e prima voce dello Stamento, Vittorio Amedeo II non potè più tergiversare, tanto che a meta marzo egli comunicò al viceré di essere disposto “a concedere la domanda che si fa per la convocazione del Parlamento” una volta conclusi i negoziati che allora si stavano trattando con la Curia romana e che qualche mese dopo avrebbero portato al Concordato con la Santa Sede. Inoltre, il re si dichiarava deciso “di far seguire una nuova numerazione dei fuochi che si trovano in codeste Città e Ville di codesto Regno, onde il Donativo venga ad essere con più giusta proporzione ripartito”; chiedeva soltanto al Pallavicino di verificare se tale operazione, in passato sconsigliata dall’abate del Maro, poteva “produrre nel Regno qualche effetto, che fosse di pregiudizio al nostro servizio”[254].
Il barone dal canto suo espresse un parere favorevole e pur ricordando che un “nuovo ripartimento” sarebbe stato una faccenda complessa “e che per terminarla vi vorrà il giro di sei mesi”, affermò di non ritenere che potesse “derivarne alcun sconcerto o tumulto”[255]. Finalmente nell’agosto 1727 Vittorio Amedeo II comunicò al proprio rappresentante che “siccome pensiamo ora di far convocare le Corti gia desiderate dallo Stamento militare…così dovrete unirvi col Conte e Reggente Beltramo per distendere una Relazione ben distinta del modo che si dovrà tenere nella celebrazione delle Corti”. Nel motivare la sua decisione, il monarca sosteneva di voler “ottenere un accrescimento del Donativo, a motivo delle maggiori spese che abbiamo fatto e continuiamo tuttavia a fare per ridurre in miglior stato le Piazze del Regno e mantenervi un presidio più forte dell’ordinario, come anche di proporre ed ascoltare li mezzi che si potessero praticare per promuovere il commercio interiore ed esteriore del Regno ed avvantaggiare con ciò la condizione del medesimo”[256].
La disponibilità manifestata dalla corte torinese derivava anche dal tentativo di impostare in modo diverso rispetto al passato i rapporti con la nobiltà sarda, in modo di ottenerne il consenso. Non a caso tra coloro che nel 1727 avevano votato il rinnovo del donativo, figuravano nobili che si erano già dimostrati favorevoli alla dinastia sabauda, ricevenclone anche riconoscimenti, come il marchese d’Albis e i conti di Monteacuto e della Guardia. Costoro, ma in generale tutto lo Stamento militare vennero trattati dal governo con una certa deferenza in occasione della proroga, segno della volontà di tener conto, almeno sul piano formale, delle prerogative dell’aristocrazia. Così nelle lettere di convocazione il sovrano si era rivolto ai marchesi di Laconi e di Albis, chiamandoli “illustri cugini”, mentre i conti di Monteacuto, della Guardia, di San Lorenzo e San Giorgio erano detti “egregi”.
Nel comportamento delle autorità sabaude sembravano emergere una diversa sensibilità nei confronti dell’aristocrazia e la consapevolezza della necessità di non offenderne la dignità. A proposito, quando si trattò di assegnare la carica di governatore di Cagliari al piemontese conte Brassicarda, lo stesso Saint Remy scrisse a Torino, ricordando che il collega, piuttosto che dei privilegi connessi all’ufficio, avrebbe dovuto preoccuparsi del fatto che doveva trattare “con più gentilezza questa gente e principalmente la nobiltà, che qui è molto suscettibile e si risente con molta facilità”[257].
Rispetto ai primi anni del dominio sabaudo era del resto cresciuta la tendenza nobiliare a rivolgersi alla monarchia, sollecitandone favori e onori. Un esempio in questo senso è fornito dal conte di Monteacuto, un Fortesa di Cagliari, che nel maggio 1726 il Pallavicino definiva come uomo “sempre ben disposto al servizio del Re”[258]. Nel raccomandarlo al Mellaréde qualche mese dopo, il viceré ribadiva che il nobile sardo era “un gentiluomo ben intenzionato al servizio di S. Maestà, che qui sta sempre con i nostri ufficiali piemontesi, favorendoli in tutto ciò che può. Possiede spirito e dolcezza e al di fuori del vizio del gioco non si sa che ne abbia altri”. Forse era per questo che il conte cercava il favore sovrano, nonostante potesse contare su 4.000 scudi di rendita; comunque sia, il Saint Remy ne perorava la causa e dal momento che costui era disposto a trasferirsi a Torino, proponeva di assumerlo a corte. Del testo, ciò gli sembrava utile anche dal punto di vista politico e si chiedeva infatti se non fosse conveniente “al servizio di S.Maestà di impiegare qualche sardo al proprio servizio”[259]. La decisione del sovrano si fece però attendere e ancora nell’agosto 1727 il viceré tornava a raccomandare il conte, ricordando che era “uno dei Sardi più affezionati al servizio dei Re“[260].
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